Sul raccontare i viaggi


- Secondo me tu dovresti raccontare di più le sensazioni, non fare una guida turistica di quello che vedi in un posto. Quelle cose me le posso cercare su Wikipedia, ma leggo i blog per capire quali emozioni vive chi ci va.

I consigli di un'amica a volte toccano corde singolari.

- Non so, mi sembrerebbe di mettere me stessa avanti al posto. Fatico a trovare un modo per conciliare le informazioni e le esperienze.

- Come ti ho detto, le informazioni si possono cercare altrove, sono le emozioni e le esperienze che catturano in quello che scrivi tu. E poi si vede proprio la differenza. Quando leggo i tuoi articoli, vedo alcune parti dove l'emozione si sente, e altre dove fatichi.

Dall'ultimo articolo su Piccioni Viaggiatori per me è passato un po' di tempo. In parte per difficoltà logistiche e di tempo, in parte per uno strano senso di blocco. Questo blocco mi appare tutti i giorni, quando mi metto al computer e cerco di produrre un articolo. Ha l'aspetto di un gigantesco cubo di rubik accanto alla mia scrivania. Mi interroga, muto e inerte, enigmatico e decisamente solido. Il suo interrogatorio è indecifrabile, poiché strettamente non verbale. Il cubo emana una forza strana che trattiene le mie dita e le irrigidisce sulla tastiera. Luoghi e scenari evocativi e sorprendenti diventano noiosi come un ambulatorio di dentista. Qualunque virgola mi sembra fuori posto.

Allo scadere di un mese di inattività, mi trovo costretta a smettere di ignorare il cubo nella stanza e a sforzarmi di risolvere il suo enigma. La prima risposta che viene fuori è questa:

Scrivere di viaggi è difficile. Per me almeno. 


Può sembrare un'ammissione banale, ovvia, perfino piagnucolosa. Ma prendiamo le distanze per un momento e fissiamo la tastiera da un'altra angolazione: quella di chi sta seduto davanti.

Quando scrivi, scarabocchi, cancelli (molto), correggi (poco), revisioni (pochissimo) da quasi vent'anni, dovrebbe essere facile. Elementare. Banale. Ami i viaggi, viaggi tanto, ami scrivere, ergo scrivere di viaggi dovrebbe essere per te rilassante e rinvigorente come una passeggiata nel parco con il cane. Invece non è così. Ti piace, ti piace anche molto, ti soddisfa vedere l'articolo finito, pronto, impacchettato, ma non è facile. E nemmeno rilassante. Per chi ha costruito la propria vita sulle parole e sul viaggio, questo è un pensiero destabilizzante. Un pensiero da nascondere, da smentire facendo lo sforzo di mettersi al computer più volte alla settimana per proseguire le serie di articoli di cui hai scritto i titoli con tanto entusiasmo pochi mesi prima. Peccato che lo sforzo non faccia che confermare il pensiero. Non è facile. Non è facile. Non è facile. Come continua a ribadire il cubo.

Eliminato il peso di questa prima negazione, occorre interrogarsi (e interrogare il suddetto cubo) sulla necessità. Perché dovrei continuare a scrivere di viaggi? Dopotutto, non me l'ha ordinato il medico, non è un'attività che mi procura dei guadagni materiali, e ci sono sicuramente numerosi autori che lo sanno fare meglio di me e che viaggiano di più in modo più avventuroso. Che risposta ho?

La necessità della memoria e il piacere della condivisione. 


Raccontare i viaggi, mettere nero su bianco le sensazioni, gli imprevisti, le piccole avventure, ci salva dalla fallibilità della memoria umana. Anche se nel mio caso userei il termine completa inaffidabilità. Un viaggio è come un sogno, in fondo. Mentre si vive, tutto appare indelebile, vivido, impossibile da rimuovere; appena si torna, le sensazioni iniziano a sbiadire, le date si confondono, i monumenti perdono nome e colore. Ciò che rimane sono pezzi sparsi, rosicchiati ai bordi.

Penso al mio primo viaggio intercontinentale: tre settimane a San Francisco, Marzo 2013. Ricordo la pioggia mentre con il mio amico e compagno di avventura attraversavo in bicicletta il Golden Gate Bridge, ricordo la signora chiacchierona e amante dei formaggi che ci ha attaccato bottone al museo del pane Boudin, ricordo il memoriale della guerra civile spagnola, il vecchietto con il bastone a quattro piedi che si arrampicava intrepido su per California Street dentro Chinatown, il sapore dei bignè di Brenda's French Soul Food. Piccoli residui di un affresco sontuoso che non potrò mai ricostruire nella sua completezza. Per questo ho bisogno delle parole.

Perché non scrivi su un diario solo per te, allora?

La necessità del racconto nasce dalla necessità di condivisione; la stessa condivisione che si trova in viaggio. Raccontare l'Estonia per me è un modo di riconnettermi alle persone con cui la mia vita si è intrecciata laggiù in quei tre brevi, brevissimi, mesi. Raccontare la Corea del Sud è la condivisione di qualcosa che per molte persone che conosco suona nuovo e inaspettato. In entrambi i casi, è un modo per rispondere alla domanda che mi sono sentita fare più spesso: "Ma perché proprio lì?"

Potrei scrivere su un diario, certo. A volte lo faccio. Ma siamo sinceri, raccontare un viaggio è sempre meglio quando si hanno orecchie che ascoltano o occhi che leggono. Soprattutto nei piccoli e rari casi in cui la condivisione diventa ispirazione. Quei momenti in cui qualcuno dice "ma dai? Sai che non sapevo niente dell'Estonia? Quasi quasi ci faccio un pensierino".
Spargere meraviglia a piene mani per chi viaggia dovrebbe essere quasi un prerequisito. Fatta eccezione per quegli episodi, angolini, incontri astrali che vogliamo tenere per noi e custodire come un segreto speciale.

Stabilita la difficoltà e la necessità, come si risolve il problema?

Interrogandomi su questo, nella mia testa spunta una voce.

- Sono le emozioni e le esperienze che catturano. Ricordi? Scrivi nel modo che senti, non costringerti in una scatola che non è la tua. Sperimenta, prova, alla fine che t'importa? Basta che scriva.

Riprenderò dunque, e riprenderò a modo mio. E prima o poi scriverò anche di San Francisco, cercando di recuperare il più possibile quel sontuoso affresco. Magari per rinfrescare le idee ci tornerò.

Alla fine nella scrittura come nel viaggio, è un po' come l'amore: basta che ci sia.



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